Farindola. L’albero di natale è piegato su un fianco, sotto un cumulo di macerie proprio accanto ad un tronco che avrà un diametro di 50 centimetri, spezzato di netto come fosse fatto d’argilla. Lì vicino, dove una volta c’erano le camere, c’è un pezzo del tabellone del Monopoli: si vede la casella con una delle quattro stazioni e quella con il punto interrogativo. Quando si finisce là sopra bisogna prendere e leggere la carta degli “imprevisti”. Mercoledì 18 gennaio, però, nessuno di quelli che erano all’hotel Rigopiano immaginava che l’imprevisto fosse una massa di migliaia di tonnellate di neve che a 250 all’ora si sarebbe schiantata sull’albergo con la forza di quattromila tir carichi. E nonostante ciascuno di noi in questa settimana abbia visto centinaia di foto, immagini video dal cielo e da terra, dell’interno e dell’esterno, quando ci si trova davanti a quell’immane scempio, si resta pietrificati. Immobili e in silenzio.
Per rispetto ai morti; e per l’incredulità di quel che si ha di fronte. In silenzio nel gelo: alle quattro del pomeriggio ci sono già 3 gradi sotto zero, ma le scorse notti la temperatura è scesa anche a -10. I giornalisti ci arrivano a nove giorni dal disastro e a ricerche concluse: non c’è più nessuno, là sotto. Non c’è più nessuno dei 28 ospiti e dei 12 dipendenti da cercare. 29 sono morti, 11 sono sopravvissuti. “E non hai visto niente – spiega Carlo Cardinali, il funzionario dei vigili del fuoco responsabile delle operazioni di soccorso nell’area – Nulla è come era allora. Abbiamo spostato macerie e cumuli di neve ogni giorno per poter lavorare e abbiamo aperto nella neve delle nuove vie d’accesso all’albergo, per arrivare con i mezzi pesanti. Ma quando siamo arrivati qui, c’era soltanto una distesa di neve e tronchi d’albero alta quattro metri. L’unica parte dell’albergo che spuntava fuori è quella là, tutto il resto era sotto”. Cardinali parla indicando il tetto spiovente del Rigopiano: è l’unica cosa rimasta intatta di quella parte dell’albergo; i quattro piani sottostanti, quelli dove erano le camere con vista sul Corno Grande del Gran Sasso, sono sbriciolati tra la neve e i tronchi. Si entra in un mondo diverso, quando si arriva all’hotel Rigopiano. Innanzitutto non si entra, senza i ramponi e l’Arva: i primi servono per non scivolare sul ghiaccio, il secondo per salvarsi la vita, qualora dovesse venir giù una nuova slavina. Ogni persona che accede all’area rossa, compresi i soccorritori, indossa uno di questi localizzatori e viene registrato, in entrata e in uscita. Dal check point all’albergo – a quel che rimane – ci sono 200 metri, non di più. Il cartello con l’indicazione Hotel resort Rigopiano è l’ultima cosa che non è stata distrutta dalla valanga: si trova a meno di dieci metri da dove è passata la neve.
Da quel punto in poi si cammina tra cumuli di neve e auto rivoltate fino ad arrivare sul fronte della valanga. Che è largo almeno 300 metri. Alzi gli occhi verso il monte Siella e vedi solo bianco, abbassi lo sguardo verso l’hotel e c’è solo il marrone della neve impastata di macerie e alberi. La lingua bianca è lunga quasi 800 metri e nel suo percorso di morte ha cancellato tutti gli alberi che ha incontrato, piegando prima sulla sinistra e infine sulla destra, per puntare dritta sull’hotel. Ma il bar, dove era? E la hall? Là dentro sono stati trovati più di 15 morti. Non c’è più nulla, niente. Letteralmente Rimangono i resti di due divani, una cassetta di plastica deformata, una scarpa, un materasso in cima ad un cumulo di macerie. “Questo intervento – cerca di spiegare Giuseppe Romano, il direttore centrale delle emergenze dei vigili del fuoco – è stato tra i più complessi che abbiamo mai gestito. Ci siamo trovati di fronte il crollo di un edificio di 4 piani, sommerso da una valanga in uno scenario di terremoto, con l’impossibilità di arrivare sia via terra che via aria e dovendo operare con il gelo e con la difficoltà nelle comunicazioni. Abbiamo lavorato 25, 26 ore di seguito, parlando con le persone vive e facendogli vedere la luce delle torcia per tutte quelle ore, infilandosi in buchi larghi 30 centimetri. Non riuscirei mai a raccontarvi cosa significa tutto questo”. Forse ha ragione lui. Però una cosa i suoi uomini la fanno capire bene. “Vedi quella struttura che è rimasta intatta, lì c’ erano i bambini”. Allora uno allunga lo sguardo e vede una specie di casetta di pietra ad un piano, rettangolare e grigia, con un metro di neve sul tetto e un metro abbondante di macerie davanti alla porta d’ingresso. Ma bisogna guardare meglio. La casetta è in realtà un pezzo d’albergo ed è come se qualcuno avesse strappato via tutto quello che c’era oltre la soglia. Son rimaste solo delle piccole applique, un quadro sfondato a metà e le parole incise nella pietra sopra l’ingresso, “sala dannunziana”. E le vite di Edoardo, Samuel e Ludovica.
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